Arcobaleno a Roma

Il paesaggio è lì, ma quando guardi nel mirino non c’è niente. Appena lo delimiti, scompare. (¹)

Quando gioca il Napoli sono come Homer Simpson davanti a una partita di baseball. Gli stimoli esterni restano confinati in un limbo fumoso, lontani dalla coscienza e ai margini dell’apparato sensoriale.
È domenica pomeriggio, il secondo tempo di Bologna-Napoli è cominciato da poco. Il Bologna è in vantaggio. Soffro in silenzio, ma ogni tanto parlo con Benitez.

Sento una voce concitata scendere dal piano di sopra. Forse qualcuno sta cercando di dirmi qualcosa. I bastoncelli mi segnalano il movimento rapido di uno dei bambini, ai confini del campo visivo.

“Togli Pandev cazzo!”. Sotto i piedi di Pandev ci dev’essere un fottuto tapis roulant che scorre per il verso sbagliato. Quello mulina le gambe a vuoto e non si sposta manco di un epsilon. Si oppone ostinatamente a tutte le manovre del Napoli: non tiene una palla, non azzecca un passaggio, non pressa, non si smarca. Sembra che Higuain e Callejón tentino invano di saltarlo: è come un muro di gomma contro cui si infrangono le nostre velleità offensive. “Che aspetti a mettere Hamsik, porca puttana!”. Mi piace Benitez, ma non capisco la sua fissa per Pandev.

La voce si fa insistente, penetrante. Fa breccia nel muro compatto che mi protegge dal mondo esterno. Sono costretto a distinguere le parole. Forse è Roberta: “Vieni, vieni a vedere! C’è un arcobaleno incredibile!”.

E che sarà mai, ne ho visti a centinaia di arcobaleni. E poi c’è Hamsik che già si scalda a bordo campo. Eccolo, adesso entra: dai dai dai! Ne ho visti a centinaia di arcobaleni.

Le mie difese, però, sono ormai fragili. Sento l’eccitazione dei bambini. C’è aria fresca che scende dal ballatoio. Qualcuno è uscito in terrazzo. Sì, sono usciti tutti, per forza, le voci si allontanano: “Pazzesco, è tutto intero!” “Guarda, ce ne sono due!”  “Il cielo dietro è nero che fa paura!”. Vacillo.

Fuori Pandev, dentro Hamsik. Era ora! Va bene, il gioco è fermo per il cambio, vado un attimo di sopra. Ne ho viste a centinaia di partite come questa, finiscono sempre nel modo peggiore.

Mi affaccio alla porta finestra del terrazzo, Michele mi corre incontro: “Papà, fagli una foto!”. Guardo in alto, prendo il cellulare e scatto. Nella foto entra soltanto un pezzetto di cielo con due archi colorati. Ne faccio un’altra, per metterli dove più mi piace. Non ho ancora visto niente, ma devo scendere a prendere la macchina fotografica vera.

Lo sapevo, con Hamsik in campo la musica è cambiata, ora è La Cavalcata delle Valchirie: un assedio, il Bologna è annichilito. Non ho ancora visto niente, ma devo tornare di sopra a fotografare l’arcobaleno.

Il cielo è nero come la tempesta, solcato da due archi perfetti, mentre il sole brucia i palazzi di Monteverde Vecchio, oltre Donna Olimpia, verso est. Sono stordito.
Mi torna in mente Pirsig: “Il paesaggio è lì, ma quando guardi nel mirino non c’è niente. Appena lo delimiti, scompare”. Eh sì, ma bisogna farlo scomparire nel modo giusto, e stavolta c’è poco tempo, perché gli arcobaleni scompaiono davvero, da un momento all’altro. Devo trasformarlo in una mia visione parziale, imponendogli i limiti angusti e arbitrari del fotogramma. Quando Pirsig pensò quella frase, il mirino era una barriera invalicabile, ma anche un alleato sincero, perché mostrava chiaramente ogni scelta possibile. Adesso è diverso: posso delimitare il paesaggio ben oltre il mirino, unendo più scatti a formare un’unica fotografia, che però posso solo immaginare. L’angolo di campo del mio obiettivo copre a malapena l’arcobaleno primario, per i piedi del secondario devo fare altri due scatti. Il mirino quindi mente, ma per fortuna non c’è molto da immaginare. La composizione non può che essere ovvia, devo semplicemente documentare la fotometeora più straordinaria che io abbia mai visto. Sarà soltanto un riflesso lontano della meraviglia in cui sono immerso, sarà comunque un paesaggio scomparso, ma sarà bello lo stesso. Mi trovo al posto giusto in un momento irripetibile.

Roma, Monteverde - 19 Gennaio 2014 ore 16:19 - Un arco tra il sereno e il fortunale. (²)

Riguardando quest’immagine, mi hanno colpito il chiarore all’interno dell’arco primario e la zona scura tra i due archi, come se il tutto fosse lì a formare un tunnel, un passaggio esoterico per attraversare indenni il fortunale. Naturalmente questo fenomeno ha invece una spiegazione scientifica:

La fascia scura compresa fra l’arcobaleno primario e quello secondario si chiama “Banda scura di Alessandro” dal nome di Alessandro di Afrodisia, un filosofo greco che per primo descrisse il fenomeno nelle sue “Cronache” nel 200 a.C.  La banda scura di Alessandro si forma a causa delle debolezze delle riflessioni interne alle gocce d’acqua corrispondenti ad angoli di fuoriuscita dalle stesse compresi fra l’arcobaleno primario e quello secondario.  Al contrario, la zona situata all’interno dell’arcobaleno primario risulta particolarmente luminosa a causa della luce che fuoriesce dopo il primo impatto con la parete interna della goccia. (³)

(¹) Robert M. Pirsig, Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta (Zen and the Art of Motorcycle Maintenance, 1974), traduzione di Delfina Vezzoli, Adelphi, Milano 1990.
(²) Parafrasando Paolo Conte e il suo arco dal sereno al fortunale. Da “Sudamerica”, brano dell’album “Un gelato al Limon”, 1979.
(³) dalla monografia Astronomia e natura, di Marco Marchetti.

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